La nostra cucina……la storia e l’evoluzione dei gusti nei secoli!
Dal Medioevo ai giorni nostri per riscoprirne i fautori…
Dai ricettari che ci hanno lasciato i cuochi del passato, possiamo dedurre come fossero: l’alimentazione, i gusti e la tavola dei nostri antenati, almeno di quelli che risalgono più o meno al ‘300.
E’ opinione comune che la cucina medievale fosse rozza e poco raffinata; che si riversasse sugli alimenti un quantitativo enorme di spezie per coprirne l’odore e il sapore di avariato; che le persone si cibassero esclusivamente di carni arrostite su grandi fuochi, magari troppo sanguinolente o ridotte a dei pezzi di carbone…Ma non è così…
Per la cucina tardo medievale..
..mangiare era una ricerca costante di sapori, colori, abbinamenti, il tutto finalizzato a dare il massimo piacere possibile. Un’arte che richiedeva molta dedizione e inventiva; sapori inconsueti come la delicatezza del latte di mandorle o dell’acqua di rose, la forza dell’agrodolce e il fascino esotico di spezie oggi dimenticate.
Fra i condimenti quello preferito era senz’altro il trinomio cacio (un formaggio assimilabile al nostro Parmigiano), zucchero e cannella, e fra gli animali c’era una predilezione per i quadrupedi e i volatili, spesso presenti sulle tavole rivestiti della loro pelle o del loro piumaggio, decorati d’oro e riempiti di animali più piccoli vivi come fossero ‘gustose matriosche’.
Dai ricettari dei grandi cuochi del passato (di cui abbiamo spesso solo alcune indicazioni vaghe circa le quantità e i tempi di cottura) mancavano alcuni alimenti oggi molto comuni come il pomodoro, la patata, il peperoncino, il mais, il caffé perché sono di origine americana e l’America, si sa, non era stata ancora scoperta.
Per essere dei bravi cuochi bisognava innanzitutto seguire il più possibile le stagioni (consiglio valido ancor oggi..), acquistando prodotti freschi e di qualità e ricordandosi di seguire anche i dettami della Chiesa: mangiare di magro il mercoledì, il venerdì e il sabato, le vigilie delle festività e durante la Quaresima, il che significava sostituire la carne con il pesce, i grassi animali con quelli vegetali, il latte animale con il latte di mandorle.
Tutte queste notizie storiche si riferiscono naturalmente alla cucina delle classi aristocratiche; infatti il popolo non affidava le proprie ricette e il loro modo di cucinare alla scrittura (evidentemente l’analfabetismo era dilagante).
E’ molto interessante sottolineare che già all’epoca esistevano quattro metodi di conservazione:
- aria: essiccazione;
- sale: salatura;
- fumo: affumicazione;
- ghiaccio: congelamento.
Le innovazioni di queste tecniche, però, si avranno solo tra il XVIII e il XIX secolo con Càreme.
Il regime alimentare nell’Italia antica
Sappiamo che nel regime alimentare del nostro territorio (cioè di quella terra che si sarebbe chiamata Italia) fondamentali erano i cereali, per tutte le classi sociali, e la loro conservazione fu sempre un urgente problema di sopravvivenza. Essi potevano esser immagazzinati sotto forma di chicchi interi o già macinati in farina, ma era necessario evitare, per i chicchi, la germinazione intempestiva e in ogni caso che la presenza di microrganismi e muffe ne compromettesse la commestibilità: perciò era diffusa la loro essiccazione al sole e all’aria o addirittura venivano tostati per essere usati tutto l’anno.
Il servizio nei palazzi dei Papi
Le notizie riguardanti i cuochi e il servizio svolto da gli “scalchi” (servi di Papi e Vescovi), vengono ricavate dalla letteratura gastronomica, dai conti delle spese delle case e delle corti, e dalle testimonianze di feste e banchetti principalmente ricavate dal personale al servizio dei Papi a Roma e Venezia: è questo il primo approccio documentaristico.
Il limite di una biografia costruita con documenti contabili e menù sta, tuttavia, nell’assenza della viva voce degli interessati, di un percorso che renda conto dei molteplici aspetti della formazione del cuoco, del cortigiano e dello scrittore.
Quali ragioni spingano ad abbracciare tale arte? Come la si perfeziona e quale importanza hanno i libri di cucina? Queste domande non trovano risposte nei documenti contabili e nemmeno nelle ricette.
L’inizio delle ricette del 1600
I ricettari stessi, così come la raccolta dei menù, sono il risultato di uno sforzo collettivo, cui partecipano non solo i subordinati, ma anche coloro che sono ai vertici della corte, con un bagaglio culturale che lo “scalco” non sempre possiede. Tali sono i confini all’interno dei quali si muove una ricerca biografica che è tuttora agli albori.
L’eccezione ci è fornita da un documento scoperto negli anni ’80. Si tratta della autobiografia di A. Latini autore dello “Scalco moderno” a partire da un manoscritto della biblioteca comunale di Fabriano, redatto da fra’ Francesco M. Nicolini. Essa racconta una vita avventurosa del 1690 dove, però, il racconto della ‘tavola’ aveva un ruolo secondario. A. Latini orfano a cinque anni vaga per le Marche mendicando pane e alloggio. Servo per necessità fin dalla più tenera età tenta la fortuna migrando a Roma ormai sedicenne.
Nella casa del cardinale A. Barberini esercita mansioni di cuoco, cameriere, guardarobiere; impara a tirar di spada e trincia all’occorrenza alla tavola di Sua Eminenza. Prima di diventare “scalco” occupa diversi ruoli in una casa patrizia, quindi piccole funzioni amministrative; scelta la propria strada, esercita in diverse città marchigiane fino ad arrivare a Napoli presso il reggente Carrillo.
Dopo il 1690, anno in cui termina il racconto, Latini pubblica “Lo scalco alla moderna” e gli viene conferito il cavalierato dello Speron d’oro. Muore nel 1696.
Nell’autobiografia sono assenti menù e ricette, ma si capisce come all’epoca un tirocinio presso una grande casa risulta fondamentale per svolgere l’arte del servizio, imparando da autodidatti, come fece Latini, a leggere e a scrivere in quella scuola di cerimonie, arti, espedienti che era una grande casa romana.
Questa biografia ne ricorda, per certi aspetti, un’altra a distanza di tempo, quella di Pellegrino Artusi, anch’essa scritta da uomo affermato, anch’essa silenziosa sulla gastronomia e prodiga di informazioni sulla famiglia, la crescita del commercio, le idee politiche e le frequentazioni di un provinciale della metà dell’800.
La cucina del 1800
Durante questo secolo si sviluppano due opposte “filosofie” nel pensare la cucina:
– la prima era quella francese che vedeva protagonista un giovane cuoco, Antoine Careme, che teorizzava una cucina che riassumeva in sé il massimo della voluttà e ricercatezza; in questo contesto il piatto doveva essere presentato in maniera sontuosa e accompagnato da raffinate architetture classiche ; Carème voleva mantenere i fasti e il lusso del passato e secondo lui il cibarsi consentiva di marcare l’affermazione di una classe sociale;
– la seconda era, appunto la filosofia italiana che si contrapponeva a quellafrancese di Careme.
Pellegrino Artusi nel 1892 pubblica un vero e proprio manuale della cucina italiana : “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Artusi nacque a Forlìmpopoli (Forlì) nel 1820. Nel 1852 si trasferisce a Firenze e dopo aver avuto successo con delle attività commerciali, diventò banchiere, ma la sua vera passione era la letteratura, infatti nel 1878 scrisse e pubblicò, ma con poco successo, una biografia del Foscolo, “note al Carme dei Sepolcri” e successivamente “Osservazioni in appendice a 30 lettere di Giusti” (poeta italiano).
La filosofia di Artusi
“Due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la procreazione della specie”, questo è ciò che pensava Artusi; dal 1871 al 1891, per vent’anni, egli raccolse le ricette di tutte le cucine regionali, mescolò assieme sapori, reciprocamente esotici, la polenta e la pasta con le sarde. In questo senso P.Artusi contribuì anche sotto il profilo ‘squisitamente’ gastronomico ad unificare l’Italia.
“Strappando le vivande ai loro luoghi d’origine, disponendole in bell’ordine in un’unica classificazione per generi, egli eseguì l’operazione preliminare della nascita di una cucina nazionale. Trascriveva le tradizioni gastronomiche locali in un unico codice, un corpus, un catalogo… e così egli invase il centro donnesco, materno dell’incoscio italiano” (Giorgio Manganelli).
Nel 1931 le edizioni di “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” erano giunte a quota 32 e l’”Artusi” (ormai il libro veniva chiamato con il nome del suo autore) era uno dei libri più letti dagli italiani, insieme a “I promessi sposi” e “Pinocchio”.
Il volume, ancora oggi, conta un gran numero di edizioni e una vastissima diffusione, raccoglie 790 ricette, dai brodi ai liquori, passando attraverso minestre, antipasti (anzi ‘principii’), secondi e dolci… E ricordiamo che il “Brunch” fu inventato dall’Artusi e da lui inizialmente chiamato “Colazioni alla forchetta”.
Ma non sarà certamente la cucina povera e semplice, teorizzata dall’Artusi, che in quel momento si diffonderà nelle famiglie nobili e nei primi grandi alberghi di lusso nati in Europa, ma persisterà ricevendo, probabilmente solo ai giorni nostri, il giusto interesse grazie alla ripresa che ne fa Giuseppe Cipriani che l’ha resa famosa nel mondo.
La tecnica e l’organizzazione di Escoffier
In questo stesso periodo storico assistiamo in Francia ad una riorganizzazione totale della cucina messa in atto dallo chef Escoffier; è questo il grande momento della cucina internazionale che sintetizza in sé raffinatezza e genuinità.
George Auguste Escoffier nasce nel 1846 a Villenevue Laubet, nella regione della Provenza. Già all’età di 13 anni inizia a lavorare presso il ristorante di uno zio a Nizza; sentiva di avere la vocazione dell’artista, ma il suo destino sarà diverso… lavorò duramente, dovendosi occupare anche di selezionare e comprare le provviste e organizzandosi quanto meglio poteva nel servizio. Escoffier ricordò sempre con gratitudine la precisa disciplina e severità con cui era stato educato in quel periodo dallo zio.
All’età di 19 anni andò a lavorare al ristorante “Le Petit Moulin Rouge”, il più elegante di Parigi, ma nel 1870 viene chiamato alle armi per partecipare alla guerra Franco-Prussiana come cuoco. Fu in questa situazione che per la prima volta uscì il ‘genio’ di Escoffier: infatti nei giorni dell’assedio egli capì la necessità di preparare cibo in scatola e così fu il primo chef a studiare accuratamente la tecnica per conservare in scatola carne, verdure e zuppe.
Ritornato dalla guerra, Escoffier lavorò in numerosi ristoranti e nel 1878 ebbe l’opportunità di gestire prima il ristorante “Maison Chevet” (specializzato soprattutto per grandi cene e banchetti ufficiali) dell’albergo “Palais Royal” e poi la “Maison Maire” assieme Monsieur Paillard (quest’ultimo è proprio quello che diede il nome alla famosa battuta di vitello, appunto la ‘paillard’).
Escoffier veniva ritenuto un’autorità e godeva di una grandissima fama.
Egli scrisse molti libri di culinaria e tra i più famosi possiamo ricordare:
- 1886 “Le traite sur l’art de travailler les fleurs en cire”;
- 1903 “Le guide culinaire” (5000 tra ricette e contorni);
- 1911 “Le carnet d’Epicure”;
- 1912 “Le livre des Menus”;
- 1927 “Le riz”;
- 1929 “La morne”;
- 1934 “Ma cuisine”.
Tutti questi libri ebbero un grande successo.
Escoffier apportò notevoli cambiamenti anche nella presentazione dei suoi piatti; la sua preoccupazione primaria era quella di offrire tutti i confort e privilegi possibili ai suoi clienti: qualsiasi particolare doveva essere curato, dalla più fine porcellana, all’argenteria, alla scelta della biancheria fino alla linea dei bicchieri, tutto questo esaltato da cibo e vino superbo.
Nel 1898 inaugura il Carlton Hotel di Londra, dove Escoffier in cucina aveva sotto il suo controllo 60 cuochi ma la organizzò in maniera tale che potè garantire il servizio per un menù “à la carte”, pratica introdotta per la prima volta in un ristorante d’albergo (che poteva tra l’altro ospitare anche 500 coperti per servizio).
Egli morì nel 1935, pochi giorni dopo la sua adorata moglie, nella sua casa, Villa Fernand che venne trasformata in un museo di arte culinaria nel 1966; l’imperatore Guglielmo 2° rimase così impressionato dalla sua bravura e ingegno che gli disse: “Io sono l’imperatore della Germania, ma tu sei l’imperatore degli chefs”.
Il personaggio che sfida la sfarzosa e ostentata cucina di Escoffier, per riproporre ciò che era stato già teorizzato dall’Artusi, cioè una cucina semplice, povera ma estremamente genuina ed elegante del 1900, è Giuseppe Cipriani.
Nel 1931, dopo aver lavorato in tanti alberghi di lusso ed evolvendo nella sua carriera, Cipriani, che in quel momento era barman all’hotel Europa di Venezia, decise di affittare un magazzino per aprire un nuovo locale, in società con uno dei suoi clienti dell’albergo, Harry Pickering, da cui appunto l’’Harry’s Bar’ prende il nome.
Nasce così la leggenda del bar più famoso del mondo, tanto che nel 2001 il ministero dei beni culturali ha deciso di sottoporlo a vincolo monumentale: Ernest Emingway, Arturo Toscanini, Guglielmo Marconi, Charlie Chaplin, Orson Wells, Peggy Geggenheim, erano solo pochi dei tanti frequentatori illustri.
L’Harry’s Bar non è solo bar, ma è soprattutto ristorante che propone una cucina che utilizza materie prime disponibili in stagione e di alta qualità e che, nella manipolazione culinaria, non altera il sapore originale del prodotto, e tutto ciò completato da un servizio in sala squisito.
Il piatto principalmente rappresentativo inventato da Giuseppe Cipriani è sicuramente il ‘Carpaccio’…
.. alla contessa veneziana Amalia Nani Mocerigo, abituale cliente del prestigioso locale, il medico aveva ordinato una dieta rigorosa a base di carne cruda. Desiderando pertanto renderle più gradevole la monotona mensa quotidiana, Cipriani pensò di presentarle un piatto di filetto di manzo affettato molto sottilmente e spruzzato con della salsa maionese, insaporita con senape e con salsa Worchestershire…e poiché in quei giorni a Venezia si faceva un gran parlare della mostra del Carpaccio e il colore della pietanza ricordava certi caratteristici colori rossi e gialli dell’artista, Cipriani pensò di chiamare “Carpaccio” il nuovo ed estroso piatto.
La sfida con la cucina nobile e dei grandi alberghi, Giuseppe Cipriani la vinse: la clientela apprezzava questo nuovo modo di cucinare e mangiare, è la vera ‘buona cucina’ ancora oggi tanto desiderata e mai fuori ‘moda’.A metà del ‘900, ci troviamo di fronte ancora una volta a due modelli di cucina, quella regionale, ereditata dall’Artusi e fatta propria dal Cipriani, e quella internazionale derivata dalle direttive dettate da Escoffier.
A sconvolgere la scena negli anni ’60 è lo chef francese Paul Bocuse
Egli codifica alcune regole che determinano la nascita della ‘Nouvelle cousine’: la presentazione dei cibi avviene in maniera coreografica e in un piatto molto grande rispetto alla pietanza di cui si riducono le dosi, le cotture si abbreviano con conseguente integrità del cibo, la creatività e la fantasia personale dello chef acquista un’importanza fondamentale. I piatti della nouvelle cousine sono vere e proprie opere d’arte, perché si accostano colori e sapori insoliti e sconosciuti tra loro, una vera delizia per gli occhi ma è una bellezza che non sazia anche lo stomaco; infatti, già negli anni ’90, sfuma questa nuova ‘moda culinaria’ a cui ne seguiranno molte altre ma di minor entità.
Il più importante seguace italiano di Bocuse, anche se con un’interpretazione creativa propria, è Gualtiero Marchesi. Il piatto divenuto famoso di questo chef, per la sua ‘preziosità’, è il risotto allo zafferano su cui viene adagiata sopra una foglia d’oro 24 carati. Uno chef contemporaneo che attinge alcuni aspetti dalla cucina regionale ed altri dalla cucina più innovativa di Bocuse, è Gianfranco Vissani.
…Per percorrere i secoli della nostra cucina attraverso il loro sapore…
Fino circa al 1000 vi è mancanza di testi scritti riguardanti la cucina; le notizie sull’alimentazione, che giungono sino a noi, di quell’epoca sono estrapolate, per vie traverse, dagli scritti delle abbazie che prescrivevano le regole nei giorni di magro e le eccezioni permesse nei giorni di grasso.
Le prime vere e proprie ricette vengono scritte solo dal 1200 (sempre provenienti dai monasteri) ma il problema di questi scritti è la loro comprensione, chiara solo agli addetti ai lavori dell’epoca! Inoltre mancava la terminologia adeguata per riferirsi, ad esempio, alle misurazioni delle dosi o alle temperature…così per riprodurre una ricetta del 1300 bisogna prima tradurre e poi provare e riprovare assaggiando!
Di seguito riporto la ricetta dell’ ‘Agliata’, (una specie di crema di aglio che poteva accompagnare le carni), scritta da un cuoco veneziano del 1300;riporto di seguito la ricetta in lingua originale…
“Agliata a ogni carne, toy l’aglio e coxilo sotto la braxa, poi pestalo bene e mitili aglio crudo, e una molena de pan, e specie dolce, e brodo; e maxena ogni cosa insema e fala un pocho bolire e dala chalda.”
Propongo ora una ricetta tratta dall’ ‘Opera’, libro che Bartolomeo Scappi pubblicò a Venezia nel 1570; si tratta di una minestra di mele.
Le preparazioni con la frutta sono di origine molto antica, infatti già dall’epoca romana le loro creme erano molto in auge; la frutta era assai usata anche nel Medioevo per farcire carni o paste o, appunto, per le minestre.
Riportiamo la ricetta, anche questa in lingua originale…
“Mondasi le mele appia, spartasi in quattro parti, sopra il tutto sia ben netta in quel sodo che è di dentro, e subito acciò non perda il colore, e sapore, pongasi in un vaso di terra overo di rame con tanta acqua chiara che lo cuopra di tre dita di vantaggio, e zuccaro fino à bastanza, e come ha levato il bollo, mettasi un rametto di finocchio dolce secco, e facciasi cuocere, e non vogliono meno di tre hore di cuocitura, perché vogliono bollire pian piano”.
una poesia che un ammiratore inviò ad Artusi per elogiarlo del suo libro ‘La scienza in cucina’ (1891);
la introdurrò con le parole scritte dallo stesso autore:
“Non per farmene bello, ma per divertire il lettore ed appagare il desiderio di un incognito, che si firma ‘un ammiratore’, pubblico la seguente lettera giuntami il 14 luglio 1906, da Portoferraio, mentre stavo correggendo in questo punto, (era arrivato a correggere il ricettario ai dolci), le bozze di stampa della decima edizione.”
“…Ecco i versi:
Della salute è questo breviario, / L’apoteosi è qui di papilla:
L’uom mercè sua può viver centenario / Centellando la vita a stilla a stilla.
Il solo gaudio uman (gli altri son giuochi) / Dio lo commise alla virtù dé cuochi;
Onde sé stesso ogni infelice accusi / Che non ha in casa il libro dell’Artusi;
E dieci volte un asino si chiami / Se a mente non ne sa tutti i dettami.
Un Ammiratore”
Arriviamo agli inizi del 1900
..periodo di grandi rivoluzioni politiche, sociali e culturali e quindi…anche culinarie! Uno dei movimenti rivoluzionari che non ha cambiato la cucina italiana, ma che sicuramente ha contribuito a ‘svegliarla e svecchiarla’, è il futurismo; se nel 1909 Filippo Tommaso Martinetti fonda il movimento sancendolo con un Manifesto, nel 1930 lo stesso Marinetti e Fillìa scrissero ‘Il Manifesto della Cucina Futurista’, dove si afferma che l’uomo edens deve alimentarsi con “nuovissime vivande in cui l’esperienza, l’intelligenza e la fantasia sostituiscano economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione”…insomma essi avevano indovinato che ci sarebbe stato un problema di obesità e che bisognava imparare a mangiare porzioni più ridotte ma di sicuro la loro cucina e le loro ricette erano più che altro opere provocatorie che cibi commestibili…
Il menù futurista
‘Antipasto Intuitivo’: “cestini scavati nella buccia dell’arancio e ricolmi di salame di autentico porco e sott’aceti Cirio, il tutto trafitto da piccoli bastoni di grissini”; la novità sta nel sputarsi addosso delle olive che contengono dei bigliettini con dei messaggi da leggere a voce alta.
Siccome ritenevano che la pastasciutta fosse “passatista perché appesantisce”, sostituirono il ‘Tuttoriso’ (considerato anche più patriottico perché non era necessario importare il grano straniero molto costoso); il riso veniva condito con vino caldo legato con fecola e birra calda, rosso d’uovo e parmigiano.
Come secondo il ‘Carneplastico’: una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita, ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte; alla base un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo (come faceva a stare in piedi?).
Il dolce, ‘Mammelle italiane al sole’, è formato da “due mezze sfere colme di pasta candita di mandorle; nel centrodi ognuna si appoggia una fragola fresca. Indi si versa nel vassoio zabaione e zone di panna montata. Si può cospargere il tutto di pepe forte e guarnire con peperoncini rossi”
Tutto ciò accompagnato da vini, birra e spumanti prettamente italiani!